Gli italiani e il web, conclusione della fase I della ricerca

Cosa ne pensano e come vedono il Web3 i professionisti e gli imprenditori italiani, come valutano la loro S.E. in questo video vi raccontiamo i risultati di questa ricerca socio-tecnologica.

Open Innovation: quali contributi per la Social Entrepreneurship?

Il tema della replicabilità dell’impatto sociale generato da un’organizzazione con fini sociali è stato identificato come una delle variabili di maggior interesse nel campo della Social Entrepreneurship (Bradach, 2003). Secondo la letteratura esistente in quest’ambito, gli imprenditori sociali che desiderano estendere il proprio impatto presso un ampio numero di comunità in stato di bisogno hanno di fronte a sé un’ampia rosa di opzioni (Taylor, Dees and Emerson, 2001).

In particolare, i contributi precedenti sono stati in grado di codificare una serie di strategie di diffusione, mettendole in relazione in modo efficace con il grado di controllo sulle attività operative esercitato dall’organizzazione che per prima ha concepito l’innovazione sociale1 (Dees, Anderson and Wei-Skillern, 2004). Sebbene tali contributi siano stati preziosi nell’identificare diverse modalità con cui l’impatto sociale potesse essere esteso a nuove aree geografiche, relativamente poco è stato detto in merito alla capacità di ciascuna strategia di soddisfare le attese degli stakeholder in termini di entità e prevedibilità del valore sociale generato.

Più precisamente, ciò che finora non è stato indagato è la misura in cui l’attitudine dell’innovazione sociale a soddisfare le aspettative degli stakeholder e a rivelare nuovo potenziale varia a seconda della strategia di diffusione adottata dall’organizzazione. Comprendere in che modo percorsi differenti per estendere l’impatto influenzano la misura e la probabilità di creare valore sociale è rilevante, non solo per gli imprenditori sociali ma anche per i finanziatori, i beneficiari e coloro che, a livello istituzionale, si occupano di pianificare politiche a supporto dell’imprenditorialità sociale.

Nel perseguire tale obiettivo conoscitivo, sarà richiamato il concetto di Open Innovation dall’ambito dell’Innovation & Technology Management (Chesbrough, 2003). Alcuni concetti chiave di tale teoria saranno utilizzati come paradigmi in forza dei quali saranno avanzate alcune proposizioni. In particolare, i concetti di permeabilità (o grado di apertura) dei confini organizzativi (boundary permeability

– openness), di valore potenziale inespresso (false negative) e di mercato intermedio dell’innovazione (intermediate innovation market) costituiscono strumenti utili per identificare la relazione esistente tra controllo dell’innovazione e attitudine a rivelare nuovo potenziale.

Per colmare questo gap, sono state individuate e definite due sotto-categorie di valore sociale: valore sociale atteso e valore sociale potenziale. L’argomentazione di fondo è che la misura in cui queste due sotto-categorie possano essere predette dipende dal grado di apertura dei confini organizzativi del soggetto innovatore e dalla modalità con cui l’innovazione sociale viene trasferita nel mercato intermedio dell’innovazione. Pertanto, le organizzazioni non profit che perseguono la scalabilità dell’impatto sociale mantenendo ampio controllo sull’innovazione (in linea con un approccio “chiuso”) saranno maggiormente predisposte a rispettare le previsioni circa il valore creato atteso ma saranno meno inclini a rivelare ulteriore potenziale, contrariamente a ciò che accade adottando strategie più orientate alla open innovation.

In questo articolo vengono avanzate alcune proposizioni teoriche circa la relazione tra tre strategie per estendere il proprio impatto e il valore sociale generato, espresso in termini di valore atteso e valore potenziale. In seguito, al fine di approfondire l’analisi, viene introdotto e discusso l’effetto moderatore esercitato dal contesto politico, economico, geografico e culturale in cui l’innovazione sociale è riproposta. Infine, i contributi forniti da tali proposizioni saranno ripresi e commentati in un paragrafo successivo così da valutarne la rilevanza pratica e teorica nell’ambito della Social Entrepreneurship.

⦁ Replicabilità dell’impatto sociale

Nell’ultimo decennio, con l’espressione Social Entrepreneurship si è indicato il fenomeno per cui alcuni individui da ogni parte del mondo, detti imprenditori sociali, hanno messo in atto delle risposte a problemi globali quali la povertà e l’inaccessibilità a servizi primari come l’educazione e l’assistenza sanitaria, mediante la creazione di organizzazioni private (Nicholls, 2006). In uno dei primi articoli di rilievo su tale tema, Dees (1998) definisce l’imprenditore sociale come colui che “gioca il ruolo di agente di cambiamento nel settore sociale: adottando una missione per creare e sostenere valore sociale (non solo valore privato); riconoscendo e perseguendo incessantemente nuove opportunità per servire la propria missione; cimentandosi in un processo di continua innovazione, adattamento e apprendimento; agendo audacemente senza essere limitato dalla quantità di risorse al momento a disposizione; esibendo un elevato senso di responsabilità verso le comunità servite e per i risultati ottenuti” (pag. 4).

Conseguentemente al suo essere un ambito di ricerca in fase iniziale, la social entrepreneurship è stata studiata da diversi punti di vista, corrispondenti ad altrettante prospettive disciplinari (Nicholls, 2010). In particolare, negli ultimi anni, alcune riviste internazionali di management ed entrepreneurship hanno promosso delle special issue per dare visibilità a tale tema e per favorire lo sviluppo di modelli teorici che approfondissero il nesso tra il concetto di imprenditorialità sociale e il suo corrispettivo commerciale (Austin, Stevenson e Wei-Skillern, 2006; Mair e Marti, 2006). Infatti, la prossimità concettuale al tema dell’imprenditorialità, il quale gode di una tradizione scientifica assodata, haindirizzato l’interesse della comunità scientifica a concentrarsi su tematiche già esplorate in ambito commerciale quali i processi di riconoscimento dell’opportunità, di acquisizione delle risorse, e dei sistemi di governance (Zahra et al., 2008; Peredo e Mclean, 2006; Roper e Cheney, 2005).

Una delle principali aree di indagine emerse nell’ambito della Social Entrepreneurship è il tema della scalabilità dell’impatto sociale (Bradach, 2003). L’esigenza di estendere l’impatto generato localmente a nuove comunità che presentano disagi sociali simili è una dinamica dovuta principalmente all’impostazione mentale e alle motivazioni proprie dell’imprenditore sociale. È questo il caso di imprenditori sociali di successo quali il premio nobel per la pace Muhammad Yunus e Millard Fuller, i quali furono in grado di intravvedere la possibilità di replicare i propri modelli organizzativi per rispondere a problemi sociali di natura simile in altre regioni geografiche, ampliando esponenzialmente l’impatto della Grameen Bank e di Habitat for Humanity, rispettivamente. Queste e altre storie analoghe hanno catalizzato l’interesse della comunità scientifica internazionale, conferendo al tema della replicabilità dell’impatto sociale una priorità di indagine in tale ambito.

Le organizzazioni intente ad ampliare il proprio impatto sociale si trovano solitamente di fronte alla scelta strategica di come replicare in modo efficace le proprie attività. In particolare, un imprenditore sociale dovrebbe definire innanzitutto il proprio obiettivo, ossia se focalizzarsi sulla comunità che sta attualmente servendo introducendo nuovi servizi (scaling deep) o se riproporre la medesima innovazione sociale presso altre comunità che presentano problemi analoghi (scaling up). Rispetto alla prima opzione, Taylor, Dees e Emerson (2001) affermano che l’imprenditore sociale dovrebbe “focalizzare le proprie energie e risorse nel perseguire un maggior impatto sociale nella comunità a lui più prossima muovendosi verso una o più delle seguenti direzioni: migliorare la qualità dei servizi, penetrare in misura maggiore il target di beneficiari, trovare nuovi modi per servirli, estendere i suoi servizi a nuovi gruppi di beneficiari, sviluppare approcci innovativi sia dal punto di vista finanziario sia da quello gestionale e fungere da esempio per altri nel proprio ambito settoriale” (pag. 243). Dall’altro lato, la replicabilità geografica è definita come “l’ampliamento dell’impatto che una organizzazione con fini sociali produce per rispondere in misura maggiore al bisogno o al disagio sociale che intende risolvere” (Dees, 2008 pag. 2). Rispetto a tali alternative, è bene dichiarare che il presente articolo intende focalizzarsi sulla seconda modalità, ovvero sulle dinamiche con cui la scalabilità è perseguita in senso geografico (scaling up).

La ricerca condotta fino ad ora sul tema della scalabilità geografica dell’impatto sociale si è sviluppata principalmente lungo tre direzioni. La prima direttrice si focalizza sulle competenze manageriali richieste all’organizzazione che intende ampliare il proprio impatto (Bloom e Chatterji, 2009; Bloom e Smith, 2010). In questi studi, gli autori formulano e testano empiricamente un modello(denominato modello SCALERS) atto a individuare un portafoglio di competenze che le organizzazioni intenzionate a promuovere un cambiamento sociale in nuove aree dovrebbero sviluppare. In tale modello, è provata una relazione positiva tra sette tipologie di competenze e la capacità effettiva da parte dell’organizzazione di estendere geograficamente il proprio impatto. Nello specifico, tali competenze consistono nella capacità di: costituire uno staff competente (Staffing); comunicazione (Communicating); costituire alleanze strategiche (Alliance building); esercitare pressioni (Lobbying); generare introiti (Earnings generation); replicare il modello (Replicating); favorire lo sviluppo di forze di mercato (Stimulating market forces).

Il secondo filone, inaugurato da Gregory Dees e colleghi, si concentra invece sulle strategie intraprese dalle organizzazioni sociali per perseguire la scalabilità del proprio impatto (Taylor, Dees e Emerson, 2001; Bradach, 2003; Dees, Anderson e Wei-Skillern, 2004). In questi articoli sono considerate tre forme di innovazione sociale: principi, programmi e modelli organizzativi. L’innovazione sociale può essere diffusa in ciascuna di queste forme secondo tre strategie: disseminazione (dissemination), affiliazione (affiliation) e branching. Queste differiscono tra di loro per il grado di controllo esercitato dal soggetto innovatore sui processi operativi e sugli elementi chiave della teoria del cambiamento2 riproposti nel nuovo contesto.

Il terzo filone, infine, si riferisce al grado di interazione tra l’organizzazione non profit e l’ecosistema entro il quale essa si muove (Bloom e Dees, 2008). Precisamente, la misura in cui le contingenze fuori del controllo diretto dell’organizzazione influenzano la capacità di riproporre la propria innovazione altrove sono considerate un elemento chiave che riguarda in maniera trasversale sia il primo sia il secondo filone appena introdotti (Bloom e Chatterji, 2009; Bloom e Smith, 2010; Taylor, Dees e Emerson, 2001). Tale considerazione è di rilevanza critica rispetto al tema della replicabilità in quanto la natura dell’ecosistema deve essere considerata come fonte esterna di varianza tra la performance delle strategie adottate.

Il modello SCALERS è stato di recente testato empiricamente, confermando una correlazione tra ciascuna competenza (scaler) e la performance sociale organizzativa (Bloom e Smith, 2010). Inoltre, in maniera coerente con la sua connotazione manageriale, questo modello spiega efficacemente in che modo risorse e attività debbano essere organizzate al fine di espandere l’impatto con

2Sposando la definizione proposta da Childress (2008), in questo articolo adottiamo il concetto di teoria del cambiamento in quanto modello “che esplicita le logiche di causa- effetto inerenti le scelte strategiche” effettuate dall’organizzazione. Nello specifico, essa costituisce la coerenza logica secondo cui la scelta di certi input (ad esempio, risorse umane e finanziarie) e la conduzione di certe attività (formative, educative, di comunicazione, ecc…) conducono a determinati risultati in termini di impatto generato dall’organizzazione sociale. successo, mantenendo il focus all’interno dell’organizzazione. Dall’altro lato, tuttavia, il modello non è in grado di esaurire le dinamiche secondo cui l’organizzazione interagisce con attori esterni per diffondere i proprio impatto, essendo ciò al di fuori del proprio intento conoscitivo.

Il secondo e il terzo filone affrontano invece la tematica appena richiamata focalizzandosi rispettivamente sulle strategie e sull’influenza esercitate dall’ambiente esterno sulle decisioni organizzative. In particolare, le strategie descritte da Dees, Anderson e Wei-Skillern (2004) trovano riscontro in numerosi progetti intrapresi da imprenditori sociali in tutto il mondo. Ad ogni modo, anche se i contributi in questi filoni descrivono in maniera puntuale le dinamiche di scalabilità dell’impatto sociale, essi non stabiliscono un nesso chiaro tra le decisioni strategiche e gli interessi istituzionali che gravitano attorno alle iniziative intraprese da questo tipo di organizzazioni, in primis le aspettative degli stakeholder circa il valore sociale generato. Lo scopo dell’articolo è pertanto quello di dare risposta a questo punto, in particolare identificando come e in quali circostanze esterne ciascuna delle tre strategie sopra menzionate dispone di diverso potenziale per soddisfare le aspettative degli stakeholder.

⦁ Replicabilità dell’impatto e creazione di valore sociale

Per rispondere a tale obiettivo conoscitivo, proponiamo di……segue su “Metaverse Me”

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